Dall’Alpago alla Sardegna: lo scrittore Antonio G. Bortoluzzi racconta la sua esperienza nell’isola dei 4 mori, sfatando tabù e luoghi comuni di una terra associata erroneamente alla movida e ai locali notturni.
Sono stato per una breve vacanza in Sardegna, proprio al tempo dell’allarme sull’isola. Avevo un voucher da utilizzare, ciò che restava di un volo annullato a giugno a causa della pandemia, e in famiglia abbiamo deciso di andare in Sardegna a fine agosto. Proprio la settimana che precedeva la partenza è scoppiato il caso Billionaire con le prime pagine fitte di immagini, video, commenti. In verità la nostra meta era a Sud di Cagliari, dalla parte opposta alla costa che ospita le famose discoteche esclusive: questo ci dava un po’ di serenità. Ma non abbastanza: quando qualcuno sceglie di andare in un posto a fare una cosa non proprio “necessaria” sente già l’eco delle frasi di parenti, amici e paesani: Te l’avevo detto. Ma chi te l’ha fatto fare? Io starei a casa. Cose così. Ma forse era tardi per disdire, o forse avevamo quel pizzico di fiducia nelle regole, e anche l’idea di vivere in un Paese – che tolto qualche squilibrato mediatico – è popolato di persone che sanno cosa fare per il proprio bene e quello degli altri.
All’aeroporto Marco Polo di Venezia tutti avevano la mascherina e il personale di servizio passava tranquillo a controllare. C’era solo un ragazzone che la teneva appesa a un orecchio: aveva una grande borsa nera e seguiva una partita di basket sullo smartphone, forse era del nord Europa. Ma il controllore, sempre con buona creanza e gesti eloquenti, l’ha richiamato all’ordine per tre volte finché il giovane non si è arreso all’educazione. Poi svelti all’imbarco e tutti a bordo del pullman e quindi all’aereo. Si parte e nessuno si deve alzare dal proprio posto se prima non ha chiamato un’hostess che lo accompagni. Si atterra dopo poco più di un’ora a Cagliari e quindi treno, autobus, Villasimius, mare bello, spiagge poco affollate. La testimonianza è questa: in una settimana in Sardegna non abbiamo visto nessuno in un luogo chiuso, e nemmeno nei chioschi sulla spiaggia, senza mascherina.
Poi leggiamo che la Regione Veneto chiede, a chi ha soggiornato in Sardegna, di sottoporsi volontariamente al tampone. Pensiamo che sì, è una cosa da fare. Di ritorno, atterrati al Marco Polo, ci sono dei cartelli con delle frecce per chi rientra da Spagna, Grecia, Malta, Croazia e ci mettiamo in coda. Tutto è ben organizzato, siamo accolti con gentilezza e tutti i viaggiatori collaborano che siano bambini, giovani o anziani. E ci è piaciuto quel pezzo d’Italia che abbiamo visto a tarda ora ciondolare sulle sedie nelle aree d’attesa. In 45 minuti eravamo fuori con il risultato del tampone e siamo arrivati a casa con l’animo più leggero perché ci sono delle cose che funzionano, delle persone che fanno il proprio lavoro e cittadini che scelgono che tipo di persone vogliono essere. Mentre tornavamo a casa in auto ho sentito una vecchia canzone, “Viva l’Italia”, di Francesco De Gregori, credo del 1979 – certo non erano tempi da Covid19 – eppure a un certo punto ecco la profezia: “Viva l’Italia, metà dovere e metà fortuna”.
Credo siamo proprio questo Paese qui, sospeso tra il senso del dovere e il senso della fortuna. E penso ci sia bisogno di tanti cittadini che hanno un grande senso del dovere per far sì che i cittadini devoti alla fortuna possano essere, appunto, fortunati.