Le balie sono le donne simbolo dell’emigrazione bellunese.
Donne che, per aiutare la famiglia, si spostavano nelle grandi città come Milano, Torino, oppure oltre confine, in Svizzera e Francia. Sempre al servizio di famiglie borghesi.
C’erano le balie e le “balie asciutte”: le prime lasciavano casa, appena partorito, per allattare il bambino della famiglia in cui prestavano servizio. Un trauma per loro. Le seconde, anche adolescenti, abbandonavano giochi e amicizie. E il loro compito era quello di accudire i piccoli: in altri termini, le babysitter.
Donne forti che si portavano dentro il dolore di non poter allattare il proprio figlio, ma un estraneo, pur di poter aiutare economicamente la famiglia.
Per le balie da latte, il contratto poteva durare fino a un anno e mezzo. Le altre anche anni.
Vite non semplici, quelle delle balie. Le quali dovevano avere dei requisiti: robuste e in salute per non trasmettere malattie ai piccini che accudivano.
Un lavoro remunerativo: potevano guadagnare tre volte un operaio, ma svolgendo ogni tipo di mansione, 24 ore su 24. Soldi sudati.
Le famiglie a cui prestavano servizio erano attente all’igiene personale e al fatto che fossero ben nutrite.
La balia poi aveva un suo corredo donato dalla famiglia nobile: indumenti intimi, vestaglie, grembiuli e pettorali ricamati. Poteva stare a tavola coi padroni, ma solo per essere controllate su cosa mangiavano.
Spesso mostravano segni di struggente e umana nostalgia. Così, i datori di lavoro le riempivano di regali – spille, cappelli – purché non tornassero a casa.
Soprattutto le balie da latte dovevano sottoporsi a visite umilianti per il bene del bimbo che allattavano.
Abbiamo notizie di donne emigrate da Limana, San Gregorio, Belluno: Teresa, Elvira, Genoveffa, Maria. La loro destinazione? Torino, Como, Milano… In treno, da sole. A volte, senza una valigia e un bimbo a casa.
La storia dell’emigrazione bellunese è anche la loro storia.