L’avanzata dei talebani “vista” da Belluno: «Un senso di sconfitta»

L’avanzata dei talebani “vista” da Belluno: «Un senso di sconfitta»

Dopo un periodo di tranquillità apparente, l’avanzata dei talebani è iniziata. Hanno avuto tutto il tempo per riorganizzarsi. Di tempo in effetti ne è passato dal primo annuncio (2011 per poi rivedere i numerici nel 2015) dall’allora presidente Obama, all’ordine esecutivo del presidente degli Stati Uniti Joe Biden. Tutte le truppe statunitensi lasceranno il paese entro la fine del mese. 

Oggi, a metà del mese, sarebbero diciotto su trentaquattro i capoluoghi di provincia afgani caduti in mano talebana tra cui Badakhshan, Baghlan e le più importanti Farah, Kandahar e Herat. 

Molte unità militari governative si sono arrese o hanno disertato di fronte ai Talebani.

Le milizie, questa volta ben organizzate e molto diverse dai combattenti mal equipaggiati del 1996 (quando Osama Bin Laden diede inizio alla collaborazione con il regime talebano del paese) sono alle porte di Kabul. Dispongono di veicoli blindati requisiti all’esercito regolare, armi automatiche pesanti e un arsenale di munizioni. 

Il secondo importante valico di frontiera Islam Qala da settimane è sotto il controllo dei Talebani, dopo che il mese scorso i fondamentalisti hanno conquistato Sher Khan Bandar, al confine con il Tagikistan. In quell’occasione hanno respinto l’esercito di Kabul e messo in fuga oltre mille soldati regolari che hanno trovato rifugio nell’ex-Repubblica Sovietica. Una conquista importante per le rotte commerciali (la via della seta) e il traffico di oppio a livello internazionale. 

Herat è caduta nelle mani dei guerriglieri dopo giorni di scontri. L’esercito regolare è riuscito ad opporsi fino a quando ha potuto, ma tra perdite, ammutinati e arresi, la sacca di resistenza ha dovuto soccombere. Oggi i talebani controllano l’aeroporto militare e civile e la base di Camp Arena, per oltre quindici anni quartier generale del contingente italiano.

Kabul è il prossimo importante e strategico obbiettivo. In queste ore sono in corso le procedure per rimpatriare lo staff delle ambasciate internazionali a Kabul. Usa, Spagna e Gran Bretagna hanno inviato militari e vettori aerei per garantire il rimpatrio in sicurezza dei propri connazionali. 

L’Italia valuta. 

In una nota del Dipartimento di Stato Usa citata da diversi media internazionali, leggo che un inviato degli Stati Uniti per l’Afghanistan è giunto a Doha alcuni giorni fa, dove “lavorerà per formulare una risposta internazionale congiunta al rapido deterioramento della situazione in Afghanistan” e “premerà sui talebani perché fermino la loro offensiva militare e negozino un accordo politico”.

Riprendono le esecuzioni sommarie dei talebani, come sempre davanti alla folla radunata all’uopo da parte dei miliziani. I civili e in particolare i bambini vengono coinvolti nei combattimenti. Da quanto trapelato da alcune fonti Onu, solo nella provincia di Kandahar in 72 ore di scontri sono morti 27 bambini e 130 feriti. Questo deve farci comprendere la gravità della situazione. Ma non finisce qui. 

Riprendono le torture, le violenze, gli stupri alle donne che per anni hanno visto nella democrazia un barlume di speranza per la rivendicazione dei propri diritti. L’orologio e la storia, tornano indietro di 20 anni. Il processo di auto emancipazione per migliaia di donne è passato anche da una serie di altri progetti, come l’educazione ai diritti umani, igienico sanitaria, il supporto ginecologico, l’educazione sessuale e lo stop ai matrimoni combinati, lasciando così la libertà alle bambine di crescere e vivere la propria adolescenza. 

Dal 2008 è in vigore una legge nazionale contro la violenza e nel 2018 è stato rinnovato il codice penale con un’intera sezione dedicata alla protezione delle donne. I dati che si possono leggere nelle relazioni delle Missioni Onu, ci segnalano come i delitti d’onore non sono mai cessati, così come gli stupri. Molte donne sono ricorse all’auto-immolazione o al suicidio per fuggire alla violenza, perché ritengono il sistema giudiziario ancora troppo debole, senza alcuna garanzia nella persecuzione della fattispecie di reato. Questo lascia ulteriori interrogativi; Con il ritorno del regime talebano cosa accadrà? 

In quei luoghi, in quei villaggi, in quei distretti, in quelle province, in quelle regioni abbiamo visto cadere 54 italiani, 625 feriti di cui centinaia gravi. Donne e uomini che hanno fatto il possibile per aiutare il popolo afghano. 

In questi anni i militari italiani hanno contribuito alla costruzione di strade, ospedali, scuole, edifici pubblici, pozzi d’acqua; 

Hanno pattugliato e presidiato vasti e sconfinati territori anche lì dove gli americani non arrivavano per timore. 

Hanno scortato convogli di viveri, di medicinali, intrapreso relazioni di fiducia con i capi villaggio. 

Hanno addestrato gli ufficiali dell’esercito afghano, i carabinieri formato il personale della polizia, ma oggi, restano e si rafforzano non pochi interrogativi sul raggiungimento degli obiettivi della missione Nato, quelli più volte ripetuti da tutte le forze politiche in campo: portare stabilità, democrazia e convivenza tra le varie etnie afghane quali Pashtun, Tagiki, Nuristani, i Wakhi, i Farsiwan, i popoli nomadi dei Beluchi e i Brahui. 

Mentre il presidente americano Biden non rimpiange il ritiro delle truppe, più di qualcuno, io stesso, affondo nella sensazione interiore di sconfitta. Gli stessi afghani vivono il ritiro delle truppe Nato come una sorta di abbandono. 

Ma non dobbiamo lasciare solo il popolo afghano, soprattutto le donne e bambini. 

Servirebbe un progetto politico internazionale per continuare a sostenere i movimenti femminili. 

Per fermare questa escalation di violenze che mette in serio repentaglio i diritti umani. Un serio progetto di pace e convivenza. 

Questo perché, diversamente dal presente, in futuro voglio credere come credevo nel passato… che i nostri giorni nel suolo afghano non sono trascorsi invano e svaniti in un singolo e personale ricordo. 

Penso alle famiglie dei nostri caduti, alle loro mogli, ai loro figli, si loro cari. 

Questo non è solo dolore, ma un dramma che colpisce la democrazia, la libertà del popolo e un rischio minaccioso alla sicurezza globale. Abbiamo lavorato, sacrificato, restituito fratelli avvolti nel tricolore per raccontare di un nuovo Vietnam? No non voglio crederci. 

Perciò non continuiamo a lasciarli soli. 

Alessandro Farina

Responsabile provinciale Dipartimento Difesa – Fratelli d’Italia

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