Una storia di contagio dal profondo ‘900 Veneto

Una storia di contagio dal profondo ‘900 Veneto

E’ una delle voci emergenti della letteratura di montagna. In esclusiva per NewsInQuota Antonio Giacomo Bortoluzzi ci invita ad una riflessione che parte dall’emergenza Coronavirus per finire, però, dentro ognuno di noi.

 

Sono settimane inquiete queste del Covid-19 (che potrebbe essere il titolo di un film di fantascienza), tra allarmismo e fatalismo, comunicazione e scienza, protocolli sanitari e libertà di movimento, vita delle persone e prosperità economica; e poi siamo dentro una possibilità mai così estrema: pandemia? Io non so nulla dei virus e quindi non dico niente, mi attengo alle indicazioni del governo e delle autorità preposte. Però conosco una storia accaduta tanti anni fa: ha a che fare con il contagio, l’isolamento, la vita che resiste e dice da dove veniamo. E poi c’è un ciuffo di fiori gialli davanti alla porta della casa dove sono nato e lì fiorisce ogni anno da quasi un secolo.

È il 1927 in Valturcana (Alpago BL) e un ragazzo torna dal servizio militare: è svogliato, nei prati non aiuta come dovrebbe. Quando scendono ai poderi si siede sul muretto, sbadiglia, dice d’essere stanco. I fratelli s’arrabbiano perché sono tanti i lavori da fare sui prati ripidi e lui tossisce. Quando scoprono che ha la tubercolosi e lo portano in ospedale è già tardi, il ragazzo muore il 2 marzo del 1927. La famiglia si svena per quel ricovero, paga tutte le cure, fino all’ultimo centesimo, nel sanatorio cittadino. Ma non è finita, si ammala anche la sorella più giovane, contagiata dal fratello, e per lei non ci sono più soldi per portarla in ospedale e deve rimanere a casa, nella sua cameretta sottotetto. Lei vuole vedere i fratelli in quei giorni da reclusa e loro, tra cui mio nonno, si riuniscono in un pendio a qualche centinaio di metri di fronte alla finestra della sua stanza e da lì si salutano, si danno una voce, più che altro si guardano. Lei si chiamava Italia, aveva 17 anni ed è morta il 2 aprile 1927, un mese dopo il fratello. Poi quella famiglia ha dovuto bruciare lenzuola, federe, asciugamani, fazzoletti, indumenti, coperte, tutto quello che i due giovani avevano toccato. Ma c’era una cosa che non potevano bruciare, l’onta di essere tubercolosi, portatori del contagio letale in tutta la valle. Poi, con gli anni, le cose si sono sistemate.

Intanto non sono morti di fame perché un loro vicino di casa è andato alla bottega del paese in fondo alla valle e ha detto: “Quello che prende la famiglia di mio compare mettetelo sul mio libretto”, è stato chiesto per quanto tempo, e lui ha risposto “Fino a quando serve”. Piano piano i fratelli e le sorelle, che erano rimasti in nove, hanno trovato lavoro, sono emigrati, hanno risparmiato, pagato i debiti, sono tornati in valle e con gli anni ci si è dimenticati che in quel borgo montano due giovani erano morti di tubercolosi a un mese di distanza l’uno dall’altra e le ragazze si sono maritate e i ragazzi si sono ammogliati. Anche mio nonno ha fatto la sua vita fino a invecchiare. Quando mi ha raccontato questa storia eravamo seduti sugli scalini della vecchia casa e guardavamo il ciuffo di fiori gialli alto un metro: erano vigorosi e brillanti nel sole del pomeriggio estivo. “Quei fiori li ha piantati mia sorella Italia poco prima di ammalarsi. Me la vedo ancora salire da lì, aveva dei bulbi in mano che gli aveva regalato qualcuno, si è inginocchiata e li ha sotterrati. Credo che poi non sia più uscita dalla sua camera.”

Allora io ero ragazzino e non sapevo niente della tubercolosi e del contagio però quella storia mi era piaciuta e mi piace anche oggi perché ci trovo tante suggestioni e anche degli insegnamenti: già ai primi del ‘900 in una sperduta valle delle prealpi venete non si era così isolati da essere al riparo dai contagi; e prima di scherzare con il Servizio Sanitario Nazionale e l’organizzazione dello Stato pensiamo da dove veniamo, da quale situazione economica, sociale, culturale siamo partiti: alla tragedia di questa povera famiglia doveva ancora capitare la crisi del ’29, la guerra, la ritirata di Russia (dove sarebbe morto un altro fratello), e poi la guerra di liberazione e avanti fino alla tragedia del Vajont, accaduta nel ’63 a pochi chilometri di distanza. Ecco, ogni famiglia d’Italia e d’Europa sa di queste e altre tribolazioni, o le ha sapute, e queste storie dovrebbero essere il nostro patrimonio di memoria, soprattutto nei momenti difficili per darci forza, temperanza e desiderio di riscatto. E poi quei benedetti fiori gialli spuntano ogni anno da quasi un secolo e per me l’Italia sarà sempre nel gesto di una ragazza di 17 anni e negli occhi di un vecchio che la ricorda come se lei fosse ancora lì, inginocchiata davanti a casa nostra.

 

ANTONIO G. BORTOLUZZI è nato nel 1965 in Alpago, Belluno, dove tutt’ora vive e lavora. Nel 2019 ha pubblicato il romanzo dal titolo “Come si fanno le cose” (Marsilio Editori) e nel volume collettivo “Lettere da Nordest” (Helvetia Editrice) il saggio “Un’invenzione spettacolare: la montagna come solitudine”. Ha pubblicato nel 2015 il romanzo “Paesi alti” (Ed. Biblioteca dell’Immagine) con cui ha vinto nel 2017 il Premio Gambrinus – Giuseppe Mazzotti XXXV edizione nella sezione Montagna, cultura e civiltà. Con lo stesso romanzo è stato finalista al Premio della Montagna Cortina d’Ampezzo 2016 e al premio letterario del CAI Leggimontagna 2015. Nel 2013 ha pubblicato il romanzo “Vita e morte della montagna” vincitore del premio Dolomiti Awards 2016 Miglior libro sulla montagna del Belluno Film Festival. Nel 2010 ha pubblicato il romanzo per racconti “Cronache dalla valle”. Finalista e quindi segnalato dalla giuria del Premio Italo Calvino nel 2008 e 2010 è membro accademico del Gruppo Italiano Scrittori di Montagna (GISM)

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