Riparte la ristorazione: «Il cibo? No, la nostra salvezza sarà la socialità»

Riparte la ristorazione: «Il cibo? No, la nostra salvezza sarà la socialità»

 

Non è tanto fame: è più voglia di qualcosa di buono. Soprattutto, voglia di socialità e normalità. Saranno questi ingredienti a salvare la ristorazione? «C’è da augurarselo» dice Antonio “Fidelio” De Fina. «Altrimenti, tanto vale tenere chiuso».

Che qualcuno faccia effettivamente fatica a riaprire dopo il lungo lockdown non è certo un mistero. Ma passione per il lavoro e necessità di archiviare il Covid hanno il sopravvento. «Resta da capire come reagirà la gente» continua De Fina, titolare della Nova Busa del Tor e di un nuovo bar a Ponte nelle Alpi, oltre che presidente dei ristoratori di Confartigianato Belluno. «Al momento sto vedendo due tipologie ben distinte: da un lato chi ha paura e non entra nei locali; dall’altro chi crede che sia tornato tutto alla normalità e va ripreso, magari per un uso scorretto della mascherina. Tipologie presenti anche in chi sta dall’altra parte del bancone, o della cucina. Conosco colleghi che non vogliono riaprire, perché hanno paura delle ispezioni troppo rigide e perché non sanno se convenga, viste le restrizioni. Perché non ci pensi, ma la gente è pronta a vedersi arrivare al tavolo il cameriere con guanti in lattice e mascherina?».

In effetti, anche questo è un aspetto da considerare. Al pari dei distanziamenti al tavolo, delle paretine in plexiglass per dividere gli avventori, e di tutto il resto. «I più giovani sono ormai orientati al take away e a mangiare a casa, come durante la “fase 1” – sottolinea De Fina -. Anch’io ho provato a fare solo asporto: una tristezza unica. I 40-50enni, invece, preferiscono andare al ristorante. Non tanto per la qualità del cibo, che rimane ovviamente più elevata rispetto all’asporto. No: non cercano quello; cercano la socialità. E credo che questa sia la vera salvezza dei ristoranti. Se la gente ricomincia ad avere la serenità che aveva prima del Covid, potremo ricominciare a lavorare nel migliore dei modi».

NOGHERAZZA

Il benessere? D’ora in poi si misurerà in metri. Lo spazio tra una fila di tavolini e l’altra. Nel nuovo mondo post-lockdown sarà una carta da giocare, un punto di discrimine tra successo e fallimento. Ne sono convinti Luigi, Giovanni e Daniele, da dieci anni al timone del ristorante “La Nogherazza” a Castion. «Avere spazio tra i tavoli dà un senso di tranquillità – spiegano – da far valere soprattutto in questa prima fase, quando le persone sono ancora molto prudenti e un po’ diffidenti l’una dell’altra». Alla Nogherazza lo spazio non manca di certo. Tutto bene dunque? Magari. «Con le norme anti contagio perdiamo oltre il 50% dei posti a sedere – fa di conto Luigi Minacori – passando da 130 a poco più di 50, con 4 posti per un tavolo da 6. Che poi diventeranno meno, perché la maggior parte della clientela, da qui a qualche mese, sarà formata da coppie. Ma se è lo scotto da pagare per garantire la massima sicurezza, lo facciamo volentieri». 

Il problema più grande è lo stop a matrimoni, cresime, cerimonie in genere. «Un locale come il nostro punta molto su questo – spiega Giovanni Grugnetti -. Da maggio a ottobre in genere avevamo un matrimonio ogni weekend. Per adesso tutto questo è saltato». Cambieranno le abitudini dei bellunesi? La risposta è un unanime “sì”. «Lo abbiamo già sperimentato con il delivery e il take-away – spiegano i tre gestori – nei due mesi di blocco». Un successo, soprattutto nel giorno di Pasqua: «Ad un certo punto ci siamo dovuti fermare, altrimenti non saremmo riusciti ad evadere tutti gli ordini». Merito anche della formula scelta, nel segno della flessibilità. «Abbiamo consegnato il giorno prima le vaschette, con le pietanze già pronte, ma da “ravvivare” il giorno successivo seguendo le dettagliate istruzioni che accompagnavano il menu. Così le persone hanno più libertà, scegliendo a piacimento modo e orario del pasto». Una faticaccia, «Perché si tratta in pratica di un altro mestiere», ma da riproporre: «Certamente – chiosa Luigi -. È una strada che volevamo già percorrere, il coronavirus ha solo accelerato i tempi»

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