«Quello che sono come fotografo lo devo alla montagna»

«Quello che sono come fotografo lo devo alla montagna»

Insieme allo scrittore Antonio G. Bortoluzzi, il fotografo di montagna e paesaggio, Francesco Cerpelloni, è stato premiato al blogger contest 2020 di altitudini.it, diretto da Teddy Soppelsa: il risultato è figlio del reportage dal titolo “Somarèra, l’anima di pietra e acqua della montagna”.

Cerpelloni, come ha scoperto il borgo abbandonato di Somarèra in Alpago?

«Per caso. Con l’abbandono della montagna in Alpago, il bosco ha preso il sopravvento, nascondendo quella ragnatela di stradine e sentieri radicati sul nostro territorio. Sono nato e ho sempre vissuto in Alpago e coltivo una curiosità che mi porta a “esplorare” in solitudine e spesso con scarse informazioni quei luoghi finiti nell’oblio. Un giorno, percorrendo una stradina e districandomi tra il fitto della vegetazione, mi sono trovato di fronte a un borgo abbandonato: Somarèra, un piccolo borgo dell’ex comune di Farra d’Alpago. Lo stupore è stato grande e in un batter d’occhio sono stato pervaso da una sequenza di emozioni, che a distanza di anni, ancora rivivo».

Come è nata la collaborazione con lo scrittore Antonio G. Bortoluzzi?

«Io e Antonio ci siamo trovati ad abitare nello stesso paese di Farra. Leggendo i suoi splendidi libri, ho capito di avere molte cose che mi accomunano a lui: si trattava solo di attendere e le nostre strade si sarebbero incrociate. L’occasione è arrivata nel 2019 con la realizzazione del volume fotografico edito dall’Unione montana “Terra d’Alpago”».

Il suo modo di intendere la fotografia di paesaggio?

«Una buona fotografia è composta da una serie di fattori tra cui la composizione, la luce, lo scenario, un singolo dettaglio. E perché no, anche un colpo di fortuna. La luce per esempio, è un elemento che non si può controllare essendo soggetta ai cambiamenti stagionali, alle repentine variazioni temporali. Perciò, se ho la possibilità, spesso torno più volte sul posto, attendo e quando tutto combacia allora finalmente piazzo l’immancabile treppiede e rilascio per un momento il pulsante di scatto. La padronanza della tecnica è fondamentale, la creatività fa la differenza perché rimodelliamo il paesaggio in una personale rappresentazione. Le immagini migliori si ottengono quando ci colpiscono non solo visivamente, ma coinvolgono anche il cuore. Una bella foto “si sente”».

E il bianco e nero?

«È un’interpretazione che non ti vincola ai vari colori della scena e ti permette di avere uno spazio di manovra per inserire a scelta le varie tonalità di grigio. Le sfumature della realtà».

Che luce c’è lassù, in alta quota?

«Quello che sono ora come fotografo e persona lo devo anche alla montagna: una scuola di vita. La fotografia è comunicazione e utilizzando questo mezzo cerco di trasmettere e condividere le mie sensazioni. Un fotografo di montagna, per come lo interpreto io, si muove quasi sempre in solitudine, è attratto da luoghi poco conosciuti, torna più volte su un punto determinato, percorre anche sentieri impervi con uno zaino sempre pesante, si alza spesso di notte e deve essere pronto a ogni evenienza. In certi luoghi sento un legame affettivo e provo un sentimento di contemplazione, non vorrei mai smettere di guardarli e la fotografia è la testimonianza del mio sguardo. Lassù? Quando in valle è quasi buio, la luce splende e nell’immobilità dell’aria niente avverte la mia presenza. La montagna appare in tutto il suo splendore, e insieme è indifferente, a volte mi concede l’ultimo scatto prima del buio».

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