Non è facile sintetizzare dieci anni di Parlamento (e tre da ministro) in due ore di intervista. Ancora più difficile essere profeta in patria. Federico D’Incà, in qualche modo, ci è riuscito.
Ieri (14 ottobre) la sala San Felice a Trichiana era piena per la serata di bilancio finale dell’attività politica dell’ormai ex ministro per i rapporti con il Parlamento. Sindaci, amministratori, sindacalisti. Ma anche amici, la moglie e la figlia in prima fila, la famiglia… e poi quel Maurizio Castro che per due volte ha traghettato Acc. Insomma, una platea diversificata a cui D’Incà si è rivolto con parole semplici e schiette. Non per chiudere in un mausoleo le cose fatte e i successi raccolti, quanto per lasciare un’eredità. E non è detto che la vita politica finisca qui. L’esperienza a Roma sì, ovviamente. Ma è lo stesso D’Incà ad aver lasciato la porta aperta: «La prima parte della mia vita politica» ha detto. Della serie, mai dire mai.
D’Incà ha tracciato la cronistoria della sua vicenda. Da quel 2009 che lo vide candidato consigliere comunale a Trichiana (con pochi voti raccolti) al Movimento 5 Stelle («eravamo quattro gatti in provincia a seguire Beppe Grillo»), fino all’ingresso in Parlamento nel 2013. «Eravamo molto inesperti, incredibilmente inesperti» ha detto l’ex ministro, calcando sull’avverbio con candore e sincerità. D’Incà però si è fatto largo, studiando, preparandosi. Prima come capogruppo alla Camera, poi come questore. E proprio i mesi da capogruppo sono stati sintetizzati in un aneddoto: quel viaggio in autobus verso Montecitorio – dall’alloggio presso le suore, a Roma – durante il quale chiese via social agli italiani cosa avrebbe dovuto dire in Parlamento rispetto al passaggio di consegne Letta-Renzi.
Tanti gli aneddoti. Tanti i ringraziamenti, ai sindaci, al presidente della Provincia, ai collaboratori. E poi le vicende Ideal e Acc, i momenti di Vaia, il Covid… Trichiana ha rivissuto gli ultimi anni in due ore di racconto, e ha applaudito. E sicuramente non si è ancora abituata all’idea di non essere più il paese dei due ministri (D’Incà e Daniele Franco). Ma in un Paese che continua a chiamare “presidenti” coloro che hanno rivestito una carica pubblica di vertice, Federico D’Incà continuerà a essere chiamato ministro. C’è da scommetterci.