Questa è una giornata speciale. Fatta di lana e gomitoli, manine e piedini. Ma soprattutto di amore. L’amore dei genitori, che è gigantesco. E minuscole sono le creature a cui è rivolto questo sentimento: i bimbi, nati prematuri.
Ebbene, il 17 novembre è una data dedicata a loro. Sì, perché è la Giornata mondiale della prematurità. Riconosciuta dal Parlamento Europeo, è stata istituita per richiamare l’attenzione sui temi che interessano da vicino i piccoli e, di riflesso, le loro madri. In questo senso, il 7% dei nati in Italia viene al mondo prima della trentasettesima settimana di età gestazionale. E la provincia di Belluno è in linea con la percentuale nazionale. Non a caso, per diverse mamme questo è un giorno particolarmente sentito. Come per Chiara Trevisson: «Arrivata alla trentaquattresima settimana – racconta – ho iniziato ad avere le prime contrazioni. Subito sono corsa all’ospedale e l’equipe medica è intervenuta con prontezza, somministrandomi un farmaco che ha permesso al mio Pietro di sviluppare la formazione polmonare».
I quindici giorni successivi trascorrono a letto: «Alla settimana numero 36, ho perso le acque. Tuttavia, mancava ancora un mese alla scadenza. Ed ero nel panico». Pietro viene alla luce, ma mamma Chiara deve pescare a piene mani dal suo serbatoio di coraggio, forza ed energie: «Dopo il parto è mancato il contatto con mio figlio, la possibilità di stare con lui, di allattarlo. È stato difficile, non lo nascondo». Insomma, la componente medico-sanitaria è fondamentale, però non basta: «Il personale della neonatologia di Belluno è stato eccezionale. A livello di formazione, professionalità, e soprattutto umano, è all’avanguardia».
Ma per la mamma di Ponte nelle Alpi le prove non sono finite: «No, perché Pietro nasce il 21 febbraio e due giorni dopo il ginecologo di turno entra in camera: “Siamo in stato di emergenza”. Mio cugino, che era lì con me, è costretto a lasciare subito l’ospedale, mentre Pietro rimane a lungo in una sorta di bolla di vetro. Erano emersi i primi contagi da Coronavirus. Né io, né mio figlio potevamo vedere nessuno». Senza contatti con l’esterno, se non quelli filtrati da uno smartphone, l’aiuto psicologico diventa vitale: «È quasi più importante del parto».
Poi, una volta fuori dall’ospedale, arriva una luce. O meglio, un’associazione. E tante mani: “Mani di mamma”. «È una realtà – conclude Chiara – che vive grazie al volontariato. La si può sostenere anche solo donando dei gomitoli, utili poi per realizzare dei piccoli corredi per i bimbi: uno dei punti in cui è possibile lasciare del gomitoli è la Casa del filato a Ponte nelle Alpi».
Mani che filano, cuciono, riscaldano.
Mani di mamma.