Confessioni di un cantinaro: lo smart working prima del coronavirus

Confessioni di un cantinaro: lo smart working prima del coronavirus

 

Sono un cantinaro. O perlomeno, così si chiamano a Milano e dintorni. Altrove non so. La parola risale agli anni del boom dell’informatica. Negli Usa furono i garage. Da noi, le cantine. Ciascuno tragga le proprie conclusioni.

Il cantinaro è colui che lavora in casa o, meglio, colui che più che del, vive nel proprio lavoro. Il cantinaro è lo smart working prima che si chiamasse smart working. 

I cantinari protolavoratoriagili si dividono in 2 categorie: quelli che lavorano sullo stesso tavolo su cui mangiano; e quelli, i benestanti, che vivono in una casa con spazio sufficiente per due tavoli. Se poi, oltre al divano, c’è anche un letto, allora entriamo direttamente nella versione lusso.

I cantinari del quaternario lavorano via web. Computer, connessione internet, partita Iva e via a realizzare progetti per aziende, agenzie, amici, amici degli amici etc. I motivi per cui si diventa cantinaro sono fondamentalmente due: perché si è stati licenziati o per una scelta di vita, cioè perché si è stati licenziati. 

Nel tempo, il cantinaro coltiva ottime relazioni con imprese, artigiani, liberi professionisti, multinazionali, nonostante gli incontri con gli stessi siano sporadici: all’inizio, per essere – come si dice – briffati (sic), e poi alla consegna. Tecnicamente, il cantinaro non è colui che elimina le riunioni, ma colui che sa garantire il massimo con il minimo di incontri e riunioni. 

I cantinari lavorano molto, fino a tardi e fino a non avere più un orario. Proletari usa e getta, sono la fortuna di agenzie e imprese, che possono contare su competenza a basso costo. I cantinari più richiesti sono quelli di una certa età, perché hanno esperienza, talento e sono frugali; parlano poco e hanno idee chiare in termini di scadenze e soldi. I più esperti sanno inoltre sopravvivere ai brief senza capo né coda, grazia alla loro creatività paranormale, e sanno sopportare forti dosi di stress in autonomia. 

Le vacanze del cantinaro sono quando esce per recarsi da un cliente. Vede gente, si muove, respira aria, osserva gli altri e il loro tran tran giornaliero, e pensa quanto vorrebbe anche lui, o lei, un tram da pigliare ogni mattina, un tran tran di cui lamentarsi e un orario di entrata e uscita (sì, il cosiddetto tram-tram). 

Perché il cantinaro sogna solo una cosa: trovare un posto fisso e pagato ogni mese, contratto, ferie retribuite e notti tranquille. Qualcuno ce la fa, la maggior parte no. Quelli che non ce l’hanno fatta, quando li incontri, parlano a raffica, manifestazione chiara della loro solitudine proletaria. Gli altri, cioè quelli che hanno raggiunto un contratto stabile, hanno poca voglia di incontrarti, perché il lavoro del cantinaro si dimentica in fretta e lascia zero voglia di rimpatriate. Con un contratto, la vita cambia: progetti, vacanze, famiglia, mutui e tutte queste belle cose. 

Il cantinaro, oggi che tutti parlano di smart working, si sente un reduce. L’entusiasmo che anima gli odierni e novelli smartworker gli ricorda quella scena de “Il cacciatore”, in cui Robert De Niro, ubriaco e prossimo a partire, incontra al bar un Berretto Verde, chiede dove combatte, come va etc e il soldato gli risponde sempre e solo “fuck it“.
Questo è quanto. E se non avete capito granché su chi sia e perché si diventi cantinaro è solo perché, dopo 30 anni, non l’ho capito nemmeno io. E questo è tutto. 

di Paolo Ceccato

© Copyright – I testi pubblicati dalla redazione su newsinquota.it, ove non indicato diversamente, sono di proprietà della redazione del giornale e non è consentita in alcun modo la ripubblicazione e ridistribuzione se non autorizzata dal Direttore Responsabile.

TAG
CONDIVIDI
Articoli correlati
© 2023 NIQ Multimedia s.r.l.s. – C.F. e P.IVA: 01233140258
Testata giornalistica registrata al Tribunale di Belluno n. 4/2019
Web Agency: A3 Soluzioni Informatiche
Made by: Larin
News In Quota
Torna in alto