Nascose il corpo dell’operaio morto: imprenditore in carcere

Nascose il corpo dell’operaio morto: imprenditore in carcere

La Corte di Cassazione ha giudicato inammissibile il ricorso presentato dai legali di Riccardo Sorarù, 46enne di Rocca Pietore, confermando pertanto la condanna decretata fin dal primo grado di giudizio penale – 4 anni e 5 mesi di reclusione – per aver causato, a fine 2018, la morte di Vitali Mardari, 28enne di origine moldava, nei boschi tra Veneto e Trentino.

Non appena la decisione delle Corte diverrà esecutiva, entro pochi giorni, non essendoci modalità alternative espiative, l’autorità giudiziaria verrà incaricata di porre in arresto l’imprenditore, che è stato anche condannato dalla Suprema Corte alla refusione delle spese di parte civile, oltre che al pagamento di una sanzione alla cassa delle ammende della Corte stessa.

La sorella della vittima, assistita da Giesse Risarcimento Danni, gruppo specializzato in casi di infortuni sul lavoro mortali, si è lasciata andare a un lungo pianto liberatorio, al termine di un processo nel quale, purtroppo, ha dovuto rivivere fin troppe volte l’immenso dolore di quel tragico giorno.

L’INCIDENTE 

Erano trascorse poche settimane dal disastro di Vaia, nel novembre del 2018, quando Vitali Mardari, tramite comuni conoscenti, si accordò con Riccardo Sorarù per aiutarlo in alcuni lavoretti nei boschi di Val delle Moneghe, in provincia di Trento. Senza un regolare contratto, con loro erano presenti altri due lavoratori “in nero”. Il gruppo dei quattro si mise prontamente al lavoro, apprestandosi a tirare un lungo cavo d’acciaio che avrebbe dovuto fungere da teleferica per il trasporto del legname.

«All’improvviso, a causa di un errato calcolo delle forze necessarie per l’attività e a causa dell’utilizzo di un mezzo non idoneo (un escavatore) per tendere la corda metallica – spiegano i tecnici di Giesse Risarcimento Danni –. La stessa si spezzò, colpendo violentemente Mardari che finì catapultato a una ventina di metri di distanza».

Riccardo Sorarù invece di allertare il 118 e prestare immediato soccorso all’infortunato, facendosi aiutare dagli altri due uomini spostò il corpo di Mardari fuori dal cantiere, trasportandolo vicino al ciglio della strada sottostante.

Uno di loro racconterà poi che, fino a quei momenti, il povero Vitali, pur se incosciente, respirava ancora.

Con inaudita barbarie, il 28enne venne a quel punto lasciato a terra e ricoperto addirittura con dei pezzi di legna.

Solo più tardi Sorarù avvisò i soccorsi fingendo di aver ritrovato il corpo per caso, mentre tornava a casa dal suo cantiere. Gli altri due lavoratori in nero, nel frattempo, si dileguarono.

Immediati ma vani, a quel punto, i soccorsi, coi medici che però subito riferirono alle altre autorità intervenute sul posto l’incongruenza tra le ferite riportate e il luogo del ritrovamento.

Ai carabinieri Sorarù raccontò una lunga serie di bugie: di essersi recato in cantiere, da solo, per controllare unicamente lo stato dei danni causati dal maltempo, soprattutto alla teleferica che, a suo dire, era caduta a terra travolta da alcuni alberi. Negò di aver lavorato quella mattina così come di aver mai conosciuto Vitali Mardari. Alla domanda del perché avesse anche lui una piccola ferita in testa, rispose di essersi fatto male a casa, nonostante i carabinieri appuntassero che invece la ferita era fresca, oltre al fatto di aver rilevato tracce di sangue nel punto in cui Mardari risultò poi essere stato colpito dal cavo.

Le indagini delle forze dell’ordine e del pubblico ministero Giovanni Benelli, unitamente alle testimonianze dei presenti e dei parenti su quanto successo prima, durante e dopo l’incidente, hanno consentito di fare piena luce sulla dinamica dei fatti.

«È emerso che i tre lavoratori che con Riccardo Sorarù si trovavano nei boschi di Val delle Moneghe erano tutti senza regolare contratto, privi di formazione specifica e di dispositivi di protezione individuale – sottolineano da Giesse Risarcimento Danni –. Non erano quindi impiegabili in lavori ad alto rischio come quelli boschivi, essendo esposti al gravissimo pericolo nei fatti poi verificatosi».

Da qui la decisione in primo grado del Tribunale di Trento che, proprio a fronte dell’agghiacciante ricostruzione di quanto accaduto, non aveva concesso all’imputato neppure un’attenuante. Sorarù era stato altresì condannato ad una provvisionale, immediatamente esecutiva, di 110.000 euro in favore dei parenti della vittima.

Anche nel secondo grado di giudizio la Corte d’Appello di Venezia aveva confermato in toto la medesima condanna, ancora senza concedere neppure una sola attenuante generica.

«A questo punto per Sorarù si spalancano le porte del carcere – commentano Claudio Dal Borgo e Alain Menel di Giesse Belluno –. Malgrado la barbarie di quanto accaduto e la dura condanna già ottenuta nei primi due gradi di giudizio, si è ben guardato in tutti questi anni dal pagare un solo euro di risarcimento in favore dei familiari della vittima. Si è preoccupato, piuttosto, di chiudere la società dopo l’incidente, con un misterioso trasferimento d’azienda in favore di una nuova Srl. In un modo o nell’altro, anche di tasca propria se necessario, questo soggetto dovrà risarcire ogni familiare: tramite i nostri legali fiduciari abbiamo disposto ogni necessaria azione in sede civile».

«Giustizia è stata fatta – commenta emozionata anche la sorella di Vitali, Ludmila –. Un simile comportamento doveva essere punito in maniera esemplare, era ciò che auspicavamo e per questo non possiamo che ringraziare i giudici che, per ben tre volte, si sono espressi in tal senso. Nessuno ci riporterà mai Vitali, che manca nelle nostre vite ogni singolo minuto di qualsiasi giornata, ma sapere che chi lo ha trattato in quel modo – come neppure si farebbe a un povero animale – ora pagherà con il carcere, ci restituisce, quanto meno, il senso di una giustizia finalmente compiuta».

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