“La comunità che cura”, la montagna come modello di sviluppo e di inclusione

“La comunità che cura”, la montagna come modello di sviluppo e di inclusione

C’è un possibile punto di incontro tra la realtà di una montagna che si spopola (in un circolo vizioso ormai entrato in loop per cui meno abitanti uguale meno servizi, e meno servizi uguale meno abitanti) e la prospettiva di una montagna che diventa essa stessa servizio e quindi attrattiva. E si chiama inclusione. A patto che la comunità riesca a mettere in piedi un sistema di welfare che crea ricchezza, in un senso lato dove non solo soldi e risorse sono un guadagno, ma anche l’ambiente, il clima, la bellezza, il senso di appartenenza…

È l’idea di Angelo Righetti, medico specializzato in psichiatria, neurologia, epidemiologia e farmacologia, responsabile di salute mentale della Conferenza Permanente Partenariato Euromediterraneo ed esperto consulente dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e dell’Onu. Righetti è stato fra i principali collaboratori di Franco Basaglia nella preparazione delle linee direttrici della famosa legge che ha portato alla chiusura dei manicomi. E sabato scorso (3 giugno) ha parlato proprio della nascita della legge 180/1978 e di cosa significa oggi. In particolare per un piccolo paese di montagna come Chies d’Alpago, che ha ospitato il suo intervento in una giornata dedicata alla “Comunità che cura nel territorio”, offrendo anche un approfondimento sugli istituti regolieri e sulle proprietà collettive (l’altro approccio alla governance di una comunità).

«Le azioni dell’essere umano si possono ridurre a due istinti: il desiderio di possesso e lo spirito vitale. Il primo è esclusivo, a volte feroce. E l’obiettivo è che non prenda mai il sopravvento sullo spirito vitale. Ma il desiderio di possesso, e quindi la voglia di guadagno, non può sparire, sarebbe un guaio» ha detto il dottor Righetti per spiegare la filosofia alla base della Basaglia, nata in una temperie culturale che aveva da una parte il compromesso storico e dall’altra il Concilio vaticano secondo. «Chiudere i manicomi fu solo un piccolo passo. Non volevamo distruggere le strutture di contenimento dei malati, ma de-istituzionalizzare la follia, inserirla all’interno della normalità». 

Possibile? Sì, secondo Righetti. Partendo dal basso. Dal concetto secondo cui i pensieri diventano parole, le parole si trasformano in azioni e le azioni in abitudini; e le abitudini formano il carattere. I manicomi erano un modo terapeutico di spersonalizzare i malati. L’alternativa? L’inclusione. Che è possibile solo in una comunità che cura. E qui viene fuori il ruolo delle piccole comunità di montagna.

«Attenzione, però» mette in guardia il dottor Righetti. «Assistenza e assistenzialismo non vanno bene: non sono inclusione. La società moderna ha dato un’etica all’assistenza, perché ha inventato una forma di welfare che non produce ricchezza ma produce costi, ha trasformato i manicomi in strutture protette, per persone inutili o dannose per se stesse e per i redditi delle famiglie. Quindi ci siamo incamminati in una strada che è peggio dei manicomi. Trasformiamo una persona che ha un costo in una persona che produce ricchezza per gli altri (basta vedere quanto costano le rette delle case di riposo). È una strada suicida delle comunità e dei legami interumani». 

Quale allora il futuro della Basaglia (e delle piccole comunità)? «Bisogna personalizzare. Sono le relazioni interumane la forza, la modalità con cui si diventa persone. La comunità deve diventare un sistema di welfare che crea ricchezza. Ma quale ricchezza? Ricchezza di ambiente e di bellezza, di socialità e interazione».

L’esempio della comunità che crea welfare è stato portato nella seconda parte della giornata di Chies, con un approfondimento sugli istituti regolieri, un esempio antichissimo (ha origini longobarde) della collettività che gestisce il territorio – i boschi, i pascoli… – e porta ricchezza a tutti i componenti della comunità stessa. 

Nel corso della mattinata il Comune di Chies ha ricordato anche Gianquinto Perissinotto, commercialista e filantropo prematuramente scomparso, che aveva sostenuto restauri di beni artistici e architettonici, in particolare con un ampio programma di recuperi di opere d’arte nelle chiesette dell’Alpago. «Anche questo è esempio della comunità che cura» ha detto il sindaco Gianluca Dal Borgo nel consegnare una targa commemorativa alla famiglia Perissinotto.

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