Ci è arrivata questa splendida testimonianza di Sabrina D’Incà: la pubblichiamo così, senza cambiarla di una virgola. O rischieremmo di intaccare la magia delle sue parole
Una normale mattinata di lavoro (normale in tempo di Covid). All’incirca a mezzodì, un signore di una certa età, uno dei “me veciot” come adoro chiamarli, prende una rivista e alla cassa chiede un sorriso. Perché «va bene gli occhioni, ma il tuo sorriso con questa cosa qua – indicando la sua mascherina – non lo posso più vedere».
E tu che fai, glielo neghi?
Assolutamente no. Igienizzi le mani, ti allontani, levi la mascherina e gli regali un sorriso, uno di quelli veri, “completi”, non solo con gli occhi: «Grazie Sabri, adesso sto bene per tutto il giorno».
Anche questo è il bello di lavorare in un negozio di paese, dove con ogni cliente si instaura un rapporto stretto.
Di “veciot” ne ho visti tanti in 18 anni di lavoro in bottega, all’alimentari di paese. Tanti se ne sono andati, ma ognuno mi ha lasciato qualcosa, fosse anche solo un ricordo: chi le dritte sul rossetto rosso, chi i caldi regali avvolgenti, chi i ritagli di giornale col mio nome, chè «se te era nasesta prima, te avarie sposà ti inveze che quela là»: chi ogni anno il ramoscello d’ulivo dopo la Domenica delle Palme, chi le grosse spese che nemmeno per un esercito..!, chi una confidenza “parchè par mi te se come na fia (come una figlia)». E molti altri saranno i ricordi che si creeranno e che porterò con me negli anni a venire.
Morale della giornata: un sorriso non si nega a nessuno, nemmeno se hai il tormento dentro. E le botteghe di paese dovrebbero essere un patrimonio per la comunità.