«Il lockdown nella “mia” Londra, tra gesti di generosità, letture e Zoom»

«Il lockdown nella “mia” Londra, tra gesti di generosità, letture e Zoom»

Vive e lavora Londra. È bellunese. E si chiama Davide Cason: i suoi occhi, la sua sensibilità, la sua capacità di fotografare situazioni e dinamiche, ci guideranno lungo una rubrica spalmata su più puntate. Alla scoperta della capitale del Regno Unito

“Che noia, qui non succede mai niente”. È il leitmotiv che aleggiava nel Regno di Sua Maestà fin dall’inizio ufficiale della pandemia: il 23 marzo 2020.

E invece di cose ne sono successe, parecchie e irreversibili, belle e brutte. Migliaia di morti, milioni di disoccupati, migliaia di società e aziende chiuse per sempre, Londra deserta come non si era mai vista: ricordo di aver camminato una mattina per qualche ora nelle vie del centro, Soho, Mayfair, Covent Garden, senza incontrare anima viva. 

Ma abbiamo assistito anche a grandi gesti di generosità e di aiuto: medici e infermieri impegnati notte e giorno negli ospedali Covid-19, vicini di casa che portavano la spesa alle persone più anziane, chiese di tutte le religioni trasformatesi in centri di distribuzione di alimenti di prima necessità, supporto morale e spirituale, il potenziamento dei social media e l’invenzione di nuove piattaforme, una per tutte Zoom, che ci hanno consentito di stare in contatto con amici e familiari, il vaccino – primi al mondo -, il metodo britannico post Covid studiato e preso d’esempio in tutto il mondo, mi fermo qui.

Durante il lockdown – quasi 10 mesi – i giovedì sera alle 8 i sudditi di Sua Maestà – sottoscritto compreso – si affacciavano alle finestre o sui balconi per applaudire gli eroi di NHS, l’ASL italiana. Nel quartiere dove risiedo, Canary Wharf, abita uno di loro: spesso vedevo questa infermiera rientrare a casa con il viso stravolto dalle ore di lavoro, 15 talvolta anche 20, e dai segni lasciati dalla maschera dell’ossigeno. Più di qualche volta un cordone di persone l’attendeva fuori dalla sua abitazione accogliendola con un applauso: una forma per esprimerle la loro gratitudine per quanto stava facendo. Ricordo ancora le lacrime di commozione che le scendevano dal viso, pallido e teso. Solo recentemente l’ho potuta abbracciare e ringraziare di persona. I figli sono andati a fare la spesa per me quando ero ammalato di Covid, sono gesti che non si dimenticano.  

Il mese scorso Londra ha ricominciato, con prudenza e gradualmente, a riaccendere i motori: negozi con le luci accese, pulizie generali di vetrine, pavimenti, facciate di palazzi, i mitici pub nuovamente brulicanti di persone, e da lunedì 17 maggio si potrà finalmente andare a mangiare al ristorante: insomma il motore di economico di Londra ha ripreso a ruggire.

Tra le mie letture, una in particolare è stata molto efficace nel lungo periodo di avversità: “L’Uomo dell’Arena”, probabilmente il passo più famoso del discorso che Theodore Roosevelt tenne nel 1910 alla Sorbona di Parigi, dove parla di rispetto e ammirazione per chi con coraggio fronteggia le varie avversità della vita.

(…) Non è il critico che conta, né l’individuo che indica come l’uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un’azione. L’onore spetta all’uomo che realmente sta nell’arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perché non c’è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l’obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta (…).

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