“Gipo, Giorgio e io”. Il signor Viani incontrato da Antonio Fiabane

“Gipo, Giorgio e io”. Il signor Viani incontrato da Antonio Fiabane

Inauguriamo oggi un nuovo appuntamento In Quota. Antonio Fiabane ha chiaccherintervistato Giorgio Viani. Non sapete chi è? Il signore in foto, ritratto con le nipotine. Per il resto, ecco chi è Giorgio Viani.

Il serpentone che dal bivio di Tai scorre verso Cortina è un fil rouge argentato. E quei compagni di viaggio, casuali, condividono per un paio d’ore se va bene specchietti, e musica che esce dagli abitacoli. «Mio padre era un grande viaggiatore, e un ottimo driver» mi dice. Il signor Giorgio parla di suo padre, Giuseppe Gipo Viani. Se non sapete chi è Gipo Viani, trovatelo, scopritelo. Che tra tutti i personaggi della scena calcistica nazionale proprio a lui iscriviamo l’invenzione di sana pianta di ruoli ora eternati: il manager sportivo, il draftatore sul mercato, capace di portare Schnellinger al Milan di Rocco, o di decidere, per lui e fino a convincere il mondo, che la stella di Rivera Gianni fu Teresio deve brillare più in alto che si può. O fondare il calcio mercato lì al Gallia, appena usciti dalla Centrale di Milano a destra, assieme al Principe Raimondo Lanza di Trabia.

Il primo direttore tecnico italiano ad alzare al cielo una Coppa Campioni, col Milan: sempre lui. E il catenaccio, ad esempio: un falso nueve, futuristico. Un sistema di gioco che ha influenzato il calcio che è.

Lui è Giuseppe Viani, per tutti “lo sceriffo”. La somiglianza con John Wayne è fuori discussione, la sua vita quella di un attore, che occupa la scena. Paracadutista, incidenti d’auto in fiamme («quelli che non hanno mai avuto un incidente mortale» gli dedicherebbe l’ironia del dottor Jannacci), notevole giocatore di poker, durante la guerra col suo camioncino avanti e indietro da Cascia, colà sfollato con la moglie Mariella e il figlio Giorgio, fino a Roma, pistola a portata di mano, briganti e tedeschi permettendo. 

«Ho fatto anche l’attore, di fotoromanzo» mi dice. «Venne a trovarmi a Milano una mia amica di Bologna, c’eravamo appena stati, al Bologna, presidente Renato Dall’Ara. Vieni con me, Giorgio, accompagnami, devo fare un provino per un fotoromanzo. Alla fine, i fotoromanzi li ho fatti io. Bolero Film, 1957, e in buonissima compagnia, Mike Bongiorno, Elsa Merlini…».

Bei tempi? Altri? Un altro calcio. «Col Siracusa, trasferte sulle retine portaoggetti dei treni locali. Fortuna che le navi americane erano stanziali lì sul porto: mio padre creò buona quota del budget stagionale al tavolo di poker transatlantico». 

Non sono aneddoti che vado cercando, questo pomeriggio. Cerco di schivare la narrazione sportiva così come piace, al giorno d’oggi, e senza volerlo ci stavo finendo dentro. In breve: oggi non vi è più epica, visto che è tutta iperbole. Vi sarete ben stancati, lo dico io e tra parentesi, di queste narrazioni ipertrofiche, di questo sport spettacolo dove non avviene mai niente in campo, ma sempre qualcosa altrove. 

Io son qui, e guardo il signor Giorgio. Che mi guarda, curioso. Da qualche parte, e non so perché, di me si fida. E più mi parla di lui, e di suo padre, e più capisco che ha ragione Pittalis: per fare un Viani, oggi, ci vorrebbero Mourinho, Raiola e Vieri messi insieme sulla stessa, celebre, carrozza in piazza Scala. Ecco, di nuovo, che ci casco. Poteva però ben essere questa la prefazione a un altro libro sullo “Sceriffo”, scritto magari dal suo amico Giorgio Lago. Alcuni sono i libri perduti, o impossibili da leggere: come la sesta lezione americana sulla coerenza di Calvino, come il terzo volume della storia confidenziale della letteratura italiana del Dossena. 

Di quel libro, che c’è e non c’è, e parte è fluito nella bella “Versione di Gipo” di Facchinetti, credo che il succo sarebbe stato: occorre credere nelle cose, talvolta anche in modo ossessivo, nella convinzione che ci sia un verso, e un modo più giusto per svolgere la matassa. «Essere un buon medico è una missione: se tu espleti una missione, a essa sacrifichi tutto, vita famiglia e te. Per questo avverso la tua decisione di fare il medico» gli dice ancor oggi, Gipo, a Giorgio. La carriera di medico di Giorgio Viani finì, per quanto sopra. E per la Fiat: concessionaria a Cortina, «tentai di fare le due cose contemporaneamente, lavorare e studiare. Giunto alle cliniche, che richiedevano costante presenza, non riuscii più a conciliare la distanza tra Padova e qui».

Qui è adesso, a Tai, e la processione d’argento scorre, come questo pomeriggio, fuori dal tempo, immobile.

Il successo? È quello che è successo: questa famiglia, «legatissima e sparpagliata per il mondo». Per buona parte del nostro incontro beviamo arance, buonissime, imbottigliate dal figlio, vicino a Noto. 

Un desiderio. «Una mostra fotografica, con i miei scatti migliori».

Sfiata un po’, laggiù sull’Alemagna e sono quasi le sei, la fila dell’estate.

Sarà, sul finire, per il ricordo ricordato di Giovanni Agnelli che passava a casa a prendere suo padre, sarà la bellezza senza tempo di sua moglie. Sarà per tutto questo e tanto altro. A me sembrava proprio di parlare con l’Avvocato. 

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