La paura di fare non è essa stessa fare. E intanto la montagna muore

La paura di fare non è essa stessa fare. E intanto la montagna muore

C’era una volta la colonia. Al mare o in montagna, per i figli dei dipendenti delle grandi aziende. Due settimane di soggiorno, con attività ludiche e ricreative nella natura. C’era una volta, ma servirebbe ancora. Anche meno di due settimane. Una sola. O un weekend. Tre giorni in qualche paese di montagna fuori dalle località “scintillanti” o da vip. A Saviner, a Caracoi, a Celat, a Masoch, a Presenaio (tanto per citare alcuni esempi dell’Agordino e del Comelico). Le attività proposte potrebbero essere quelle del taglio del bosco, della cura del prato. Ma anche provare a spedire una mail con connessioni difficili, o sapere che ci vuole mezzora di macchina per arrivare al servizio essenziale più vicino, quaranta minuti per raggiungere il supermercato o la posta, un’ora e mezza per andare in ospedale. Attività ludiche per un abitante della città, quotidiane per chi vive tutto l’anno in montagna. Solo così “l’homo urbanus” potrebbe condividere un po’ le difficoltà dell’homo montanarus e capire – almeno in parte – la condizione di vita delle terre alte, che si stanno a poco a poco spegnendo. Altrimenti si ricade nel vizio antico per cui un cittadino teme come la peste qualsiasi intervento edilizio o infrastrutturale in una montagna che vede da lontano e interpreta come luogo da fiaba disneyana.

Le Olimpiadi di Milano, ma soprattutto Cortina, sono indicative in questo senso. L’ultimo tassello lo ha messo Tomaso Montanari. Il noto accademico e rettore dell’Università per stranieri di Siena ha usato parole di fuoco sul Fatto Quotidiano per demolire i Giochi (e anche il Paese Italia che ha deciso di ospitarli). Premessa doverosa: nessuno vuole colate di cemento, nessuno plaudirebbe mai alla distruzione, tanto più in un territorio che gode del marchio Unesco. Ma la paura del cemento non può non accompagnarsi alla consapevolezza che quel territorio muore se non si interviene adeguatamente. A meno che la voce dell’homo urbanus non voglia che la montagna si spopoli e diventi una riserva, in cui anche solo le tracce dell’uomo sono considerate dannose per la conservazione della natura. Se così non è – e non potrà mai essere così, perché quello che sono oggi i paesi delle Dolomiti bellunesi è frutto di una sapiente convivenza millenaria tra uomo e natura – è necessario che la montagna sia viva e abitata da uomini e donne per 365 giorni, non solo da vacanzieri per due settimane. E che vengano dati strumenti di vitalità quotidiana a quei pochi che ancora scelgono di viverci. Perché si tratta di una scelta, e anche il non fare niente è scegliere. 

Le Olimpiadi possono (e devono, nel caso del Bellunese) dare quel colpo di reni necessario a invertire la rotta dello spopolamento. Devono portare investimenti. Devono lasciare servizi in un territorio che ha visto la desertificazione negli ultimi anni. Devono fornire quelle infrastrutture che mancano e sistemare quelle esistenti. Che non significa colate di cemento, costruzioni faraoniche o cattedrali nel deserto. Significa piuttosto intervenire per dare a chi vive in montagna le stesse possibilità di chi vive in pianura. È una questione di equità e giustizia sociale, più che di ambientalismo. E non può essere la paura di fare a guidare le scelte. Perché tra fare troppo e non fare niente, c’è la possibilità di fare bene. Un concetto che da sempre i montanari conoscono bene. Il Montanari forse un po’ meno.

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