C’era il Covid, si dirà. I movimenti sarebbero stati comunque inferiori rispetto al solito. E i dati non sono paragonabili a quelli dell’ultimo inverno senza pandemia. Vero. Ma la matematica aiuta. E dice che al netto del coronavirus e delle “zone rosse” e “arancioni” la montagna bellunese non è ancora pronta per essere turistica d’inverno senza lo sci. Perché di fatto, senza impianti, i turisti non arrivano. O arrivano in misura molto molto minore.
Il dato è abbastanza chiaro. Il periodo dicembre 2019-marzo 2020 (quindi con un mese quasi di lockdown a gravare sui numeri) aveva registrato 294.494 arrivi e 1.245.396 presenze. Lo stesso periodo un anno dopo (dicembre 2020-marzo 2021) dice invece 85.630 arrivi e 377.831 presenze. Le chiusure dei confini comunali in “zona rossa” hanno senza dubbio contribuito al crollo. Ma pesa soprattutto l’assenza dello sci. Lo si vede nel mese di febbraio, con il Veneto giallo e quindi aperto agli spostamenti: 162.045 presenze quest’anno, 465.378 lo scorso anno. Se si pensa che ogni presenza vale – rimanendo a un livello base – tra i 50 e i 100 euro, si ha la misura della perdita. Con beffa, considerando la quantità di neve naturale con cui il cielo aveva benedetto le Dolomiti.
Ora la montagna bellunese si appresta a un’estate che dovrebbe essere di rilancio. Le prime prenotazioni stanno arrivando e le prospettive sembrano buone, soprattutto per la seconda metà di luglio e per agosto. Resta però la questione: difficile che si possa fare turismo invernale in montagna senza sci. Gli impiantisti e l’intera filiera delle vacanze lo hanno capito a loro spese.
