Il Covid rimette in luce la montagna. «A patto che sia collegata al resto del mondo»

Il Covid rimette in luce la montagna. «A patto che sia collegata al resto del mondo»

La rivincita della montagna. La ribalta del rurale. Il Covid ha cambiato le regole del vivere. E ha fatto riscoprire una dimensione diversa; quella del piccolo borgo, a misura d’uomo. Che la pandemia possa diventare un’arma per contrastare lo spopolamento delle “terre alte”? Possibile. «A patto però che il piccolo sia anche connesso. Senza collegamenti, la montagna resta perdente». Lo sguardo è tecnico. Perché il professor Giovanni Campeol (urbanista, sociologo e docente di valutazione ambientale e strategica allo Iuav di Venezia) è abituato a ragionare di sistemi insediativi dal punto di vista scientifico. E di città, quella cosa – dice Campeol – «che nella sua accezione completa, sociologica ed economica, è un complesso dal quale si possono trovare benefici, come la capacità di aggregazione, servizi…».

E oggi la città continua a dare benefici?

«La città sì. Le grandi periferie no. E l’ultimo secolo ha ingrandito enormemente le periferie a scapito delle città. Renzo Piano aveva pensato al progetto di rammendo urbano delle periferie. Ma non dobbiamo rammendare niente: il vestito logoro resta logoro, la periferia che fa schifo continuerà a fare schifo; perché è omologante, l’una uguale all’altra. E il Covid lo ha dimostrato».

In che senso?

«Il lockdown e la quarantena forzata hanno ribaltato la situazione: meglio i centri più piccoli, i borghi…».

Meglio la montagna?

«Anche. Il Covid ha fatto esplodere in modo incredibile il conflitto urbano. Ha fatto sorgere la contraddizione tra due modalità di insediamento umano: una fortemente competitiva ma alienante, la metropoli; e un’altra poco competitiva, fatta di insediamenti urbani sparsi nell’agricoltura o insediamenti in aree montane. Durante la quarantena abbiamo scoperto la qualità del vivere in un rapporto dimensionale da piccoli borghi. Abbiamo capito che l’alienazione generata dal lockdown ha meno effetto nella piccola città, mentre è molto più forte nelle grandi città, soprattutto in periferia, dove ti senti prigioniero dei grandi condomini».

Insomma, piccolo è bello…

«Sì, piccolo è bello, nella misura in cui mantiene un rapporto spaziale tra costruito e non costruito. Mi spiego: a Belluno in cinque minuti sei dal centro alla campagna e viceversa. Ma attenzione: non è l’isolamento che vince. L’isolamento è perdente sempre, anche per la campagna».

Nell’epoca del distanziamento sociale, non è l’isolamento la carta vincente?

«Assolutamente no. L’uomo è un “animale sociale” per definizione aristotelica. Abbiamo bisogno di relazioni. Ne ha bisogno anche l’economia. E difatti vincono i piccoli centri che sono ammagliati, collegati. Lo vediamo nella pianura veneta: piccole cittadine, tutte connesse».

E la montagna? 

«Ha una grande occasione. Vigo, Auronzo, Pieve di Cadore, Alleghe… hanno la medesima dimensione di un paesino del Trevigiano, ma non sono connessi. Stare in prigione a Settimo Milanese o a Rocca Pietore, psicologicamente cambia poco. Ambedue non sono connessi con il resto del mondo. Il tema della connessione invece è fondamentale. È vincente il piccole e bello connesso; è perdente il piccole e bello isolato». 

Quindi bisogna collegare il Bellunese al resto del mondo?

«È fondamentale. Altrimenti anche il cambio di prospettiva generato dal Covid svanisce».

Come si fa a collegare la montagna?

«Il collegamento è gerarchicamente diviso in due livelli: prima fisico, poi telematico. Il digitale è uno strumento di aiuto alla connessione fisica, ma non può essere sostitutivo della connessione fisica. L’ho detto anche al comitato scientifico di Urbanpromo di cui faccio parte: volevano fare una sessione sulla città digitale. Non ci sto: io voglio la città fisica, viva, materica».

Come facciamo a mettere a frutto questa pandemia?

«Dobbiamo promuovere il paesaggio bellunese, rendendolo facile da raggiungere. Tutto qui».

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