Il lager e il cappottino nero: Itala Tea Palman, sopravvissuta all’orrore dell’Olocausto

Il lager e il cappottino nero: Itala Tea Palman, sopravvissuta all’orrore dell’Olocausto

 

Nata a Trichiana il 16 aprile 1922. Arrestata l’11 novembre 1944, in casa: la sua.
Incarcerata a Belluno e portata nel lager di Bolzano.
Liberata il 3 maggio 1945.
Questa è la storia di Itala Tea Palman: una storia di prigionia e di torture, ma anche di liberazione.
È morta nel 2017, ma ci ha lasciato la sua “memoria”.

Cresciuta in una famiglia che ha appoggiato la Resistenza, Tea venne rinchiusa. E maltrattata nella sua cella. Stava male Tea: molto male.
Tra i soldati tedeschi non c’erano solo orchi, ma anche giovani con un cuore.
E proprio Tea ne incontrò uno della Wehrmacht. Un soldato che, di nascosto, portava ai detenuti sigarette, pane o caffè (acqua sporca), rischiando molto.
Fece recapitare pure al fratello più piccolo di Tea, allora tredicenne, un biglietto per fargli sapere che stava bene.
In una fredda mattina svegliarono tutti. E i detenuti vennero chiamati uno a uno.
Fu pronunciato pure il nome di Tea. Su un camion, come bestie, venne fatto l’ultimo carico.
Era gennaio, probabilmente.
Perché in quei luoghi perdi il senso del tempo: si sentono solo freddo, sonno e fame.
Tutto il resto è sfumato e l’unico scopo è mantenersi in vita.
Gennaio 1945: destinazione, campo di concentramento di Bolzano. Unica donna ammassata tra tanti poveri uomini.
Fece fermare il camion e, in un atto di generosità da parte delle guardie, riuscì a prendere posto in cabina. Due giorni lunghissimi di viaggio, con fermate e dormite all’addiaccio.
All’arrivo, venne buttata giù dal cassone, vestita del suo cappottino nero: l’unica cosa che le era rimasta.
Il resto lo aveva mandato a casa perché a Belluno le avevano detto che, a Natale, sarebbe tornata indietro.
In fila aspettavano l’entrata ai blocchi. Che impressione nel vedere quegli esseri umani su castelli di letti: una ferita all’anima e agli occhi.
Le venne incontro Maria Da Gios, una delle poche facce amiche rimaste.
Inizialmente si rifiutava di andare persino in bagno, si scaldava solo davanti a una vecchia stufa.
Ci si abitua a tutto, dopo. Anche a lavorare alla galleria Virgolo.
Denudata del suo cappotto nero, fu vestita con una camicia piena di pidocchi e una tuta bianca.
Tea era addetta ai cuscinetti a sfera in questa fabbrica, guardata a vista da due soldati.
Il numero di matricola non lo ricorda, Tea. Ma l’odore acre di morte e di violenza, quello sì.
Un giorno capitò che liberavano i prigionieri in gruppi di cinquanta, ma lei non era tra quelli.
Venne trasferita ancora. E finalmente un salto verso la libertà era rappresentato dal trenino che si dirigeva verso Predazzo.
Da lì, a piedi attraverso una galleria che portava a Fiera di Primiero,
Giunta a Feltre, le gambe viaggiavano da sole. Poi su un carro fino a Trichiana: le venne incontro una bicicletta a forte velocità.
Era suo fratello più piccolo.
Guerra finita, Tea era sopravvissuta. Anche all’orrore del campo di sterminio.

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