Diario da un giardino nell’epoca del virus: tutto si è fermato, non la natura

Diario da un giardino nell’epoca del virus: tutto si è fermato, non la natura

Diario da un giardino 

 

Un giovane ragazzo, contadino di mestiere, sta arando un piccolo lembo di campo: la semina è vicina. Grano per la polenta.

Lo guardo muovere la terra: bella, nera. Si muove quasi in una danza prodigiosa: solo il rumore del piccolo trattore di campagna e di un picchio in lontananza.

Nessuno per la strada: la statale è deserta, come la strada di campagna.

Nulla di strano se non fosse che è sabato Santo. E precede la Pasqua.

Continuo a guardare in basso, il muoversi lento della terra.

Un po’ come il nostro di tempo: quello umano che si è improvvisamente arrestato più di un mese fa. Per un nemico enorme e invisibile, aggressivo e impietoso.

Il ragazzo apre la porta del trattore in un balzo: è già vestito della sua tuta verde, chiusa in una lunga cerniera.

«Siamo abituati a guardare a terra», mi dice.

«Ma hai visto il cielo in queste settimane? È di un azzurro intenso, la luce è diversa». 

Alzo gli occhi in questo sabato strano, in cui forse saremmo stati intenti a prepararci per uscire.

Il cielo è davvero azzurro mare, le montagne sono nitide e la luce è quella della primavera.

Una luce bella, anomala.

La stagione è intenta nel suo gioco di immagini che cambiano giorno dopo giorno.

Mi rendo conto che, dalla panchina, la guardo, la scruto, la ascolto.

E sento rumori, suoni che prima erano impercettibili all’orecchio.

Vedo il mutarsi degli alberi in un’esplosione di colori di vita.

Sembra ci sia più ossigeno per respirare.

Tutto si è fermato: lei no.

Ci fa sentire che è viva, che pulsa, che esiste.

È lei che detta il tempo, mostrandosi in tutta la sua bellezza.

È tornata la cinciallegra anche quest’anno: ma solo ora mi rendo conto del lavoro certosino e ingegnoso che c’è dentro un nido.

Giorni di lavoro, di ricerca di rami e qualsiasi cosa utile per deporre le uova.

E il bosco, prima spoglio, comincia qua e là a dipingersi di verde. 

Mi sembra di essere in una rinomata galleria d’arte: osservo da lontano l’immensità senza toccare.

Persino il guardare si intimidisce di fronte a tutto questo.

E ti senti per la prima volta piccolo, davanti al prodigio.

L’aria è cambiata: il tepore delle belle giornate è un dono.

Il ruscello continua la sua corsa, ma il suo spingersi fra le anse è diverso.

Anche l’erba che lo costeggia è viva.

Il mio orecchio è cambiato.

Il mio sguardo è cambiato.

Il sentire è cambiato.

Anche il rumore di passi nella ghiaia è diverso.

Lei no: la natura c’è sempre stata.

Ed è l’unica che continua ad andare avanti, mentre tutto si è fermato.

Donando a chiunque uno spettacolo gratuito che forse in pochi guardavano.

Che forse poche orecchie udivano.

Ora è un patrimonio universale.

E quel cielo azzurro forse vuole dirci: abbiate cura di me. 

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