«L’ossigeno, la febbre, l’insonnia: i miei 11 giorni nel reparto Covid»

«L’ossigeno, la febbre, l’insonnia: i miei 11 giorni nel reparto Covid»

 

«Il Covid come una banale influenza? Non si scherza con il fuoco. E ve lo dice uno che si è quasi scottato». 

Lo dice, in particolare, Vittorio Colussi: 58 anni, padre di famiglia, grande lavoratore, con un passato da sportivo nell’ambito pallavolistico. Insomma, una vita normale nella sua Ponte nelle Alpi. Fino a quando non arriva “lui”: il virus. «Avevo febbre, dissenteria e vomito. E, con l’aggravante del diabete, serviva la massima attenzione. Per questo, lo scorso 11 novembre, hanno deciso di caricarmi in ambulanza e portarmi in ospedale: al San Martino, però, non c’erano più posti letto disponibili. Così, mi hanno trasferito a Feltre, al Santa Maria del Prato, dove sono rimasto per 11 giorni. Un periodo in cui ho vissuto l’esperienza umanamente più forte della mia vita». 

Vittorio ha rischiato di essere intubato: «Ci sono andato vicino perché la saturazione era bassa. E allora ho rispolverato la mia indole di sportivo, quando effettuavo esercizi di respirazione durante l’allenamento. Quegli stessi esercizi mi hanno permesso di mantenere la calma. E mi hanno fatto reagire. Le cure, da sole, non bastano. Ognuno deve metterci del suo». 

Eppure, Colussi si ritiene fortunato: «Lo sono, perché ho toccato con mano le condizioni dei ricoverati e dei miei vicini di letto. Alcuni di loro li ho persino aiutati. Tanto è vero che, col sorriso sulle labbra, il primario mi ha invitato a unirmi al personale infermieristico». Già, gli infermieri: «Svolgono un lavoro encomiabile, non so neppure come facciano. Indossano sempre lo scafandro, sono coperti dalla testa ai piedi. E hanno la visiera regolarmente appannata». 

Sono state giornate complicate. A tratti tremende: «Non ho mai dormito di notte. E una volta ero in carenza di ossigeno: mi hanno infilato una cannula nel naso e somministrato 2 litri di ossigeno». Senza considerare la preoccupazione: «Se il corpo non reagisce alle cure, l’approdo in terapia intensiva è inevitabile». Come inevitabile è prendersela con chi sottovaluta il problema: «A coloro che minimizzano le conseguenze del Covid, consiglierei di rimanere per una decina di giorni in ospedale. E poi dovrebbero dirmi l’effetto che fa. Ci sono ancora troppi comportamenti sbagliati, soprattutto nei bar e nei locali. Più di qualcuno non rispetta le regole, senza valutare i pericoli che corre. E fa correre agli altri. Il virus c’è, esiste. E va trattato nella giusta maniera. La malattia non sfocia in un banale raffreddore, ma in polmonite. Parliamoci chiaro: si rischia la terapia intensiva. E si rischia, soprattutto, di non uscire più dall’ospedale». 

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