34 anni fa un’altra piccola quarantena: a Belluno se la ricordano bene

34 anni fa un’altra piccola quarantena: a Belluno se la ricordano bene

Uno scoppio spaventoso. A ripetizione altre esplosioni. Poi quello che sembrò un enorme incendio. Si innalzò nel cielo una nube: aveva un colore acceso, strano; un rosso intenso, luminescente. 

«Non avevo mai visto niente di simile, neanche al cinema» disse Nadezhda Petrovna Vygovskaya, che abitava al nono piano di un palazzo di Pryp’jat’.

I bambini si affacciarono alle finestre, uomini e donne al balcone per guardare questo spettacolo pirotecnico, affascinante. Si racconta che alcuni raggiunsero un ponte lì vicino da dove si poteva osservare meglio la centrale: verrà poi chiamato “il ponte della morte” perché pare che davvero in pochi sopravvissero.

No, non è un film, non è fantascienza. È la realtà di Černobyl’, centrale nucleare V.I. Lenin. È il 26 aprile 1986, 34 anni fa esatti. È notte: 01.23 e 40 secondi. 

Durante un test di sicurezza programmato qualcosa va storto e all’interno del reattore numero 4 si crea una violenta spinta che fa saltare il coperchio (pesava oltre mille tonnellate!), all’interno del quale è custodito il nocciolo. È come un’enorme, pericolosa, spaventosa pentola a pressione: il vapore sprigionato dalla reazione crea una forza incontenibile e inarrestabile che fa esplodere tutto.

Nessuno poteva sapere in quel momento, e nemmeno lo avrebbe immaginato nei giorni successivi, che quel 26 aprile sarebbe diventato la data in cui accade il più grande disastro nucleare della storia. 

Fu classificato come incidente grave di livello 7 sulla scala internazionale degli eventi nucleari e radiologici. Solo un altro incidente raggiungerà questo triste primato: il disastro nucleare di Fukushima del 2011.

Questa incredibile reazione generò un’esplosione, che a sua volta provocò un incendio. E le fiamme cominciarono a disperdere nell’aria isotopi radioattivi. Ci vollero più di 10 giorni per spegnere l’incendio, ma non anche a fiamme domate, il disastro andò avanti e si propagò.

Ci pensò il vento; in quei giorni soffiava verso ovest e portò la nube radioattiva in giro per l’Europa. 

Pryp’jat’ venne evacuata e fu creata una “zona di esclusione” di circa 30 chilometri (ancora oggi all’interno di questa zona non si può accedere). 

Tom Skipp, fotografo, ha raccontato con le immagini quei luoghi, come sono oggi. Ha incontrato i figli di chi quel disastro l’ha vissuto da vicino. Ha conosciuto alcuni “liquidatori” sopravvissuti, gli uomini che si immolarono alla causa sovietica ed eseguirono il lavoro di bonifica all’interno della centrale, lì dove le macchine non riuscivano a funzionare perché la radioattività era troppo alta.

C’è ancora chi vive in quei luoghi, all’interno della zona proibita. Sono anziani che probabilmente non se ne sono mai andati.

La nube tossica arrivò in Italia tra il 29 e il 30 aprile, in particolare nelle regioni centro-settentrionali. I bellunesi si ricordano perfettamente di quel disastro. «Dicevano che la nube tossica sospinta dai venti era arrivata sulle Alpi e poi precipitata nella zona dolomitica». «Consigliavano di non mangiare le verdure fresche, di non bere il latte, di rimanere chiusi in casa ed evitare di andar per prati. Non si doveva stendere la biancheria, e neppure mettere all’aria le coperte». Sono molti i bellunesi che hanno nitido questo ricordo in testa.

«Era proibito mangiare le verdure dell’orto e soprattutto le fragole perché dicevano che assorbivano in modo particolare le radiazioni, per lo stesso motivo anche i funghi…la mia bimba aveva pochi mesi e non potevo darle il latte vaccino» ricorda una mamma.

Il Governo aveva effettivamente emanato veri e propri divieti come quello di vendere, per 15 giorni, verdure a foglia e di somministrare latte fresco ai bambini con meno di dieci anni d’età e alle donne in stato di gravidanza. Il 24 maggio (solo un mese dopo il disastro) con un appello televisivo l’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi comunicò agli Italiani che potevano tornare a mangiare quel che volevano. Il disastro e le sue conseguenze sembravano lontani.

Ma non lo erano poi così tanto se pensiamo che ad oggi si registrano ancora livelli di radioattività sopra la norma nei ghiacciai alpini come quello dei Forni.

Lo diranno in molti appena dopo il disastro: non poteva accadere, è scientificamente impossibile, il nocciolo non può esplodere….. eppure è accaduto. 

Nel balletto delle responsabilità dei mesi successivi, in un clima di “omertà” e finta sicurezza sovietica mostrata al mondo intero, la verità su ciò che accadde venne insabbiata e occultata per venire a galla molto dopo. Ancora oggi però le conseguenze di ciò che accadde le viviamo letteralmente sulla nostra pelle.

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