La “leggendaria” Francesca Mussoi abbandona per un attimo le Leggenda in quota e ci accompagna idealmente a San Vito di Cadore, nel set di “Un passo dal cielo”: la serie tv Rai, prodotta da Matilde e Luca Bernabei per Lux Vide
Il lago di Mosigo, con il suo chalet, è diventato il set di “Un passo dal cielo”.
Un teatro invidiabile, con il monte Antelao a fare da cornice.
Sì, ho avuto la fortuna di entrare nel set – o meglio, dietro le macchine da presa – per raccogliere frammenti di un lavoro che non sempre è ciò che appare da fuori.
Gli attori? Disponibili, oltre che belli.
Ma se tutto funziona è anche grazie alle oltre cento persone legate al cast.
Una piramide, in gergo, che non starebbe in piedi se non ci fosse una base solida: costituita dai generici che portano i pasti e l’acqua alle comparse. O dai runner, che corrono avanti e indietro a reperire cavi e si occupano del trasporto degli attori.
«È un lavoro – mi dice un fonico – che porta a stare diverse settimane lontano da casa e dalla famiglia».
«Possono servire dieci ore al giorno, per 4 minuti di pellicola», mi spiega la produzione.
E l’ho visto con i miei occhi. Una scena ripetuta per mezza giornata, ma mai con disappunto: «Il lavoro è questo. E per fortuna abbiamo potuto riprendere. Perché il Covid ha colpito come uno tsunami anche questo settore».
L’incognita meteo, per una serie girata quasi tutta all’esterno, è il problema più grande: «Il cambio di programma è praticamente la normalità», sostiene Mirko della produzione.
Non esistono compiti prettamente femminili o maschili. Tutti fanno ciò che serve: dalla fotografia, al trucco, alla gestione dei droni e delle macchine da presa.
«Deve esserci sinergia, empatia in una troupe – spiega Mirko -. E il regista è la mano che plasma e che leviga eventuali dissapori, dettati dalla magari stanchezza. Le serate? Doccia, cena e a letto con un buon libro. Vale per tutti, pure per gli attori».
L’unico giorno libero è la domenica: «E lo dedichiamo a visitare il territorio bellunese. Abiti in un paradiso, lo sai?», mi dice il ragazzo che cura l’entrata delle comparse.
«Mi sono portato la moto, dammi qualche dritta».
Inizio l’elenco: sorride. «Dovrei rimanere qui mesi. Dillo tu a mia moglie».
Questo è un lavoro sudato.
Un lavoro di sacrificio, lontano dalle famiglie, anche se ben remunerato.
Non solo lustrini e paiettes, quindi, ma vite normali.
Persone disponibili e umane.
Persone. E non personaggi costruiti o distaccati.